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Quale scienza per le professioni della relazione di aiuto?

Tullio Carere-Comes

Da molte parti si ritiene che la legge 56/1989 sia superata, perché unifica sotto la dizione psicoterapia due realtà affini ma profondamente diverse.

A una prima area, sanitaria o diagnostico-procedurale, appartengono le pratiche di cura di disturbi patologici mediante procedure empiricamente validate per il trattamento di quei disturbi, di competenza esclusiva di medici e psicologi. A una seconda area, formativa o dialogico-processuale, appartengono le pratiche finalizzate alla cura del disagio esistenziale e allo sviluppo delle potenzialità di individui e gruppi (empowerment), esercitate da chiunque abbia ricevuto una formazione adeguata per farlo. In questa seconda area rientrano la psicoterapia di indirizzo esistenziale (di matrice psicodinamica o umanistica), il counseling, la mediazione famigliare e diverse altre professioni della relazione di aiuto. Psicologi e medici possono giustamente rivendicare l'esclusiva della psicoterapia scientifica nel senso delle scienze empiriche che fondano l’insegnamento delle facoltà mediche e psicologiche, ma non hanno alcun titolo per rivendicare quello della cura esistenziale, che è scientifica anche questa, ma in un senso diverso da quello preteso dall’ideologia positivistica dominante.

 

Per cogliere il senso di questa differenza, occorre partire dalla constatazione che la cura del disagio esistenziale è una cosa sostanzialmente diversa sia dalla cura medica, sia dalla cura psicologica che su questa si modella (trattamento con procedure empiricamente validate per la cura di disturbi specifici). Poiché la ragione per riservare la psicoterapia a medici e psicologi non può essere né la formazione medica, che manca agli psicologi, né quella psicologica, che manca ai medici, si deve trovare in qualcosa che è comune a queste due categorie professionali. E ciò che le accomuna non si trova in altro che nella formazione scientifica, quella della moderna scienza sperimentale, i cui criteri fondativi sono l’oggettività e la riproducibilità. Ora, la scienza che sta alla base della formazione medica e psicologica ha un ruolo marginale nella cura del disagio esistenziale, in cui la posizione centrale è occupata dal dialogo. La verità rilevante in questa cura non è quella dell’esperimento da cui derivano le procedure tecniche da applicare nella relazione con il paziente, bensì quella che emerge nell’incontro con il cliente, sempre unico e imprevedibile.

 

 Ne risultano due modi profondamente diversi di curare. Il primo è più propriamente un prendersi cura della persona e del suo disagio, indipendentemente dalla forma che questo disagio assume, e che può avere o non avere dei risvolti chiaramente patologici. Il secondo è una cura specificamente e tecnicamente rivolta al disturbo o al problema presentato. La differenza sostanziale può essere espressa con questa formula: la cura medica si basa sul sapere, quella esistenziale sul non sapere. E’ una differenza stabilita sin dai primordi del pensiero occidentale. Il metodo di Socrate è fondamentalmente lo stesso che fonda la moderna cura esistenziale: il dialogo, che sospendendo ogni pretesa di sapere apre lo spazio in cui il logos, la verità del processo dialogico, può a poco a poco rivelarsi. La cura consisterà allora nell’aiutare il soggetto a prendere coscienza delle identificazioni di cui è rimasto prigioniero, non certo per offrirgli identificazioni sostitutive tratte dalle teorie in cui potrebbe essere identificato il curante (che quindi sarebbe a sua volta prigioniero di un sapere), ma per rimettere in movimento il processo esistenziale bloccato. Le diverse mappe di cui il terapeuta esistenziale dispone, tratte dai più diversi orientamenti teorici, possono aiutarlo a riconoscere le trappole cognitivo-emotive in cui il cliente è caduto e a rispondere alla sua richiesta di aiuto nei modi più appropriati a quel particolare cliente in quel contesto specifico e in quella fase esistenziale. Ma poi ogni situazione, ogni singolo incontro richiedono delle risposte uniche, che possono essere trovate solo immergendosi in quella situazione con mente sgombra da qualsiasi preconcetto e aspettativa, come suggeriva Freud con il suo celebre consiglio di lasciarsi sorprendere a ogni svolta, e come insisteva Bion con il suo altrettanto celebre invito a lasciare il desiderio e la memoria fuori della stanza di analisi.

 

Ora, il «confronto dialogico a livello etico, epistemologico e giuridico tra i professionisti e le rispettive teorie/culture di provenienza, nel rispetto delle comunanze e specificità» è un punto essenziale del Manifesto, se non la stessa ragione di essere, del Cipra. E’ sempre il dialogo, dunque, che fonda sia la relazione tra professionista e cliente, sia quella tra professionisti. Ma in che senso questa fondazione può essere detta rigorosamente scientifica? A questa domanda sono state date alcune risposte preliminari da parte dei professionisti che si sono impegnati nella fondazione del Cipra. In questa area si possono leggere i contributi iniziali di Ettore Perrella, Pier Luigi Lattuada, Massimo Soldati e il mio. Da questi contributi intendiamo far partire un dibattito, al quale sono invitati tutti coloro che sono interessati alle questioni epistemologiche implicate nelle professioni della relazione di aiuto.

 

 

Questo testo è tratto dalla relazione intitolata “Il counseling e oltre”, presentata al IV convegno nazionale di AssoCounseling, tenutosi a Milano il 20-21 aprile 2013

 http://www.assocounseling.it/approfondimenti/articolo.asp?cod=885&cat=APPRO&titlenav=Approfondimenti

 

 

 

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