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Inclusione difficile

Durante la terza serata di incontri del CIPRA sull’utilizzo improprio del potere nella relazione d’aiuto incentrato sulla disabilità, ho brevemente menzionato nel mio intervento la necessità di ascoltare le persone disabili. In particolare, ho sottolineato la necessità di rispettare il modo in cui ciascuno di noi desidera definirsi e definire le proprie capacità. Nella realtà dei fatti, definirsi attraverso la propria disabilità è considerato talvolta un atto rivoluzionario, altrimenti un peccato mortale, poiché l’aspettativa è che le persone disabili parlino della propria condizione e la vivano in modo da non urtare la sensibilità di chi non è disabile.

Vedere una persona disabile che parla apertamente di disabilità e soprattutto ne parla in termini positivi fa ancora paura a tanti perché nell’immaginario comune la disabilità è una barriera che impedisce di avere una vita degna di essere chiamata tale. Ho visto tanti attivisti rivendicare il termine ‘disabile’ come positivo, come una sorta di autorizzazione a vivere la propria vita secondo i propri termini perché, come ha detto la celebre attivista e comica australiana Stella Young, “vivere senza paura in un corpo del quale la società ti dice che dovresti avere vergogna è un atto politico”. Il problema è che non dovrebbe esserlo. Ho passato gran parte della mia infanzia e adolescenza a scusarmi costantemente per il modo in cui il mio corpo è fatto e a concordare con chi mi diceva che una cura si sarebbe trovata, che un giorno anche io sarei stata ‘come tutti gli altri’.

Da bambina avevo un sogno ricorrente nel quale una pillola magica mi permetteva di camminare da sola, ma questa pillola aveva un tempo limitato al termine del quale io cadevo a terra, e se volevo rialzarmi senza l’aiuto del mio deambulatore dovevo prenderne un’altra. Nei sogni di solito è tutto perfetto, ma in questo c’era un trabocchetto: se avessi preso una pillola dietro l’altra ad un certo punto avrei smesso di camminare del tutto. Anche se era solo un sogno, al risveglio mi capitava sempre di domandarmi: ‘Questa pillola magica la vorrei davvero? Sarei davvero me stessa senza la mia disabilità? Anche se un giorno dovessi smettere di camminare del tutto, sarebbe una cosa così negativa?’.

Adesso, per me la risposta a tutte quelle domande è no. Andando avanti con gli anni ho smesso di fare quel sogno e riflettendoci, ho capito che era un prodotto di quello che in inglese si chiama ‘internalised ableism’, abilismo internalizzato, ossia la convinzione inconscia di valere di meno come essere umano a causa della propria disabilità e di non meritare la qualità di vita raggiungibile attraverso la richiesta di aiuti o percorsi accessibili di qualsiasi tipo. A causa di una società che ci vuole ‘normali’, ero convinta di meritarmi la discriminazione che subivo e subisco tutt’ora e che se non riuscivo a partecipare attivamente in certi ambiti della società a causa delle barriere architettoniche il problema era mio; chiedere di rimuovere le barriere sarebbe stata una pretesa inappropriata.

Dopotutto, le persone disabili sono bombardate da messaggi, mediatici e non, che invitano al superamento se non addirittura alla cancellazione della disabilità. Lo vediamo in ambienti religiosi cattolici dove la persona disabile diventa quasi un’icona di santità, una creatura mandata dal cielo per essere una virtuosa fonte di ispirazione per chi è ‘normodotato’, oppure un monito a non commettere peccati per non essere punito con menomazioni, o persino un infermo desideroso di essere guarito. Lo vediamo nell’accanimento mediatico sugli atleti paralimpici considerati come eroi che superano la propria disabilità dimostrando che ‘l’unica disabilità nella vita è il pessimismo’. Tutto ciò, a mio avviso, è sbagliato: in ogni caso c’è l’aspettativa che la disabilità sia al servizio di chi una disabilità non ce l’ha, a volte come barriera che crea contrasto e separazione del tipo ‘noi’ (normodotati) e ‘loro’ (disabili); altre volte come dimostrazione del fatto che le barriere, in realtà, non esistano e che siano semplicemente un segno di scarsa voglia di fare.

Per questo è necessaria l’apertura di un dialogo con le persone disabili che sono direttamente coinvolte in queste dinamiche, poiché la condizione di disabilità va valorizzata e non curata o ‘aggiustata’. Se non fossi disabile, non farei il lavoro che faccio. Se non fossi disabile, probabilmente non mi sentirei in dovere di parlare per chi una voce non ce l’ha o per chi è troppo sconsolato per mettere in parole ciò che sto dicendo io ora, perché passare la vita a gridare per farsi sentire è stancante e spesso avvilente. Dall’altra parte non bisogna cadere nella trappola di pensare che la disabilità in quanto tale renda eccezionali. È il modo in cui la concepiamo e ne parliamo che ha davvero il potere di cambiare le cose.

Il compito di chi si relaziona con persone disabili, da amici e familiari al personale sanitario, è di ascoltare, riconoscere il proprio pregiudizio e cambiare per lavorare verso un mondo in cui le persone disabili siano rispettate indipendentemente da come decidono di vivere la propria condizione, dando la possibilità di definirsi sulla base della propria disabilità come di ignorarla completamente. Ci dev’essere un’attenzione duplice nel riconoscere sia la natura politica della condizione di disabilità sia nel rimuovere le barriere, in maniera tale che essere disabile sia una differenza esistenziale nella vita quotidiana proprio come avere occhi marroni o azzurri. È triste essere costretta a dire che, data la condizione di marginalità delle persone disabili, la vera spinta per cambiare debba partire collettivamente dalle persone non disabili. Ma per fare ciò, dovete prima di tutto ascoltarci e trattarci come gli esseri umani che siamo e abbiamo diritto di essere.

Sofia Brizio

Laureata all’Università di Cardiff in giornalismo e studi culturali, scrittrice di articoli di sensibilizzazione sui diritti dei disabili.

 

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