“Il Cipra si configura come uno spazio di confronto dialogico a livello etico, epistemologico e giuridico tra i professionisti e le rispettive teorie/culture”. Questa proposizione del Manifesto pone il dialogo come momento centrale e costitutivo della politica culturale del Cipra. E’ un termine di cui occorre cogliere bene il significato, se non si vuole che valga come un nobile quanto innocuo appello che lascia il tempo che trova. C’è un dialogo di cui nessuno sembra volersi privare, perché la sua assenza sarebbe segno di presunzione, arroganza o dogmatismo – sospetti che ognuno vorrebbe allontanare da sé. Non si tratta qui d’altro che della disponibilità ad ascoltare più o meno educatamente le convinzioni altrui, senza alcuna intenzione seria di mettere in gioco le proprie. Il dialogo autentico, invece, si fonda precisamente su questa intenzione. Può essere definito come la comunicazione che si stabilisce tra due o più interlocutori che mettono in sospensione, tra parentesi o in gioco le rispettive preconcezioni e aspettative, aprendo in tal modo uno spazio (dià) in cui il logos della relazione, che trascende le posizioni particolari dei dialoganti, può farsi sentire. In altre parole, c’è una verità delle cose che può mostrarsi nella misura della disponibilità dei parlanti a prendere le distanze dalle verità particolari, personali o di scuola, di ciascuno.
Gli elementi fondativi dell’approccio dialogico sono essenzialmente tre. Il primo è la fede nel logos (fede filosofica in Jaspers, F in O in Bion). E’ evidente che non è possibile sospendere l’adesione a qualsiasi credo particolare per aprirsi al vuoto e all’ignoto, se non c’è la fiducia che in questo vuoto si mostrerà una verità destinata ad arricchire o sostituire tutte le verità in precedenza acquisite. La fede nel logos fonda la posizione scientifica originaria, a differenza di tutte le fedi che si basano su testi sacri, istituzioni o metodi particolari. Sono sicuramente possibili scienze speciali, basate su assunti che sono dati per scontati: come ad esempio una scienza teologica che non mette in dubbio le verità della Bibbia, o una scienza empirica che non mette in discussione la supremazia del metodo sperimentale basato sui principi di oggettività e riproducibilità. Ma lo scienziato originario (nel senso che attinge direttamente all'origine di ogni sapere) si distingue dai cultori di queste scienze settoriali in quanto sospende in modo radicale, continuo e sistematico l’adesione a ogni verità acquisita.
Il secondo punto discende dal primo. La sospensione continua e sistematica di ogni preconcezione e pregiudizio richiede una disciplina rigorosa sia per stanare e mettere in luce tutti quei presupposti preconsci o inconsci che, se non visti e fintanto che non sono visti, condizionano inevitabilmente la visione; sia per sviluppare la capacità di mantenersi saldi in un vuoto di sapere. Infatti la mente non esercitata non sa restare a lungo nel vuoto, e tende a ricreare rapidamente delle certezze cui aggrapparsi per proteggersi dalla vertigine e dallo smarrimento. Anche il terzo punto è collegato ai primi due. Esso consiste nella necessità di aprire e coltivare diversi spazi dialogici, la cui funzione è da un lato quella euristica di favorire sempre nuove scoperte, dall’altro quella di sottoporre continuamente ad analisi critica tutto ciò che viene via via scoperto. Il primo di questi spazi è naturalmente quello del dialogo interno, in cui il singolo ricercatore coltiva la dialettica noetico-dianoetica in cui ogni intuizione è sottoposta al vaglio critico della ragione discorsiva. Data tuttavia la straordinaria capacità di autoinganno che distingue l’Homo sapiens da tutte le altre specie viventi, il dialogo interno deve sempre essere integrato da più relazioni dialogiche esterne, almeno una delle quali a carattere sistematico e permanente.
La conoscenza prodotta dal metodo dialogico fonda in primo luogo una scienza locale: una pratica finalizzata alla conoscenza degli eventi che vengono via via contestualmente costruiti. Nello stesso tempo, la coppia terapeuta-paziente (o analista-analizzante, o counselor-cliente) è impegnata in un’impresa di esplorazione del campo che porta alla scoperta di numerose regolarità o invarianti a livelli crescenti di generalizzazione. In tal modo essa costituisce un anello della grande rete di ricercatori euristici che giorno per giorno arricchisce e affina il patrimonio di conoscenze del campo. La cosa di cui qui si tratta è dunque, a livello locale, quella che si genera di momento in momento tra due esseri umani immersi in una relazione dialogica; e, a livello generale, essa è il logos, la logica interna del processo di trasformazione e realizzazione di sé che grazie al dialogo (del terapeuta con il paziente e con gli altri terapeuti, del passato e del presente, impegnati nel lavoro di scoperta) rivela gradualmente le sue strutture invarianti o ricorrenti.
La relazione di aiuto è autentica, cioè non manipolativa, nella misura in cui è dialogica – sempre che il dialogo non sia strumentale all’applicazione di procedure standardizzate, ma sia lo spazio comunicativo in cui si sviluppa il processo della cura e della crescita personale, interpersonale e transpersonale. La stessa sospensione di presupposti e aspettative che fonda il dialogo è alla base dell’osservazione fenomenologica che permette di riconoscere e descrivere le regolarità o strutture invarianti del processo con cui si costruiscono le mappe di cui ogni professionista si serve per orientarsi nel campo della cura (scienza eidetica). La scienza che studia le regolarità del campo è descrittiva, e non prescrittiva: le mappe permettono di orientarsi nel territorio, ma non dicono dove la relazione di cura deve andare. La direzione da prendere a ogni passo è sicuramente aiutata dalla disponibilità di buone mappe, ma è decisa passo per passo dal contesto unico e imprevedibile di ogni relazione di aiuto e di ogni singolo incontro, che include i significati e i valori che tutti i partecipanti attribuiscono a ogni singolo evento del processo. E’ tuttavia innegabile il fatto che ogni scuola costruisce le proprie mappe (modelli, teorie) con i propri metodi e strumenti, e non solo con un approccio fenomenologico. Il dialogo tra professionisti quindi deve partire dal dato di fatto dell’esistenza nel campo di una pluralità di mappe, costruite con i metodi più diversi, inclusi quelli della ricerca empirica quantitativa che sono usati per derivarne procedure standardizzate da somministrare secondo i principi (non dialogici) del modello medico, ma anche per costruire mappe da utilizzare all’interno di un approccio dialogico-processuale (v. Blasi & Rossi Monti, La questione delle psicoterapie e del counseling “sufficientemente buoni”, 2013). Questo significa che l’approccio dialogico-processuale, proprio perché dialogico, accoglie e si confronta anche con i risultati della ricerca empirica, purché impiegati per la costruzione di mappe da utilizzare in modalità dialogico-processuale, e non procedure standardizzate da applicare in modo prescrittivo secondo i canoni del modello medico.
La cura dialogico-processuale consiste in una relazione che è dialogica nella misura in cui il curante sospende ogni preconcezione e aspettativa e chiede al cliente di impegnarsi a fare lo stesso per favorire l’apertura di uno spazio relazionale sufficientemente sgombro da presupposti e condizionamenti in cui il logos – la logica del processo – possa manifestarsi e svilupparsi liberamente. Ed è processuale in quanto la guida della cura non è affidata ad alcuna teoria o protocollo, ma alle indicazioni che emergono dal processo stesso di momento in momento (process-driven treatment, trattamento guidato dal processo). Naturalmente anche nella cura di tipo tecnico-procedurale si attua qualche forma di dialogo e si sviluppa qualche tipo di processo, così come anche nella cura dialogico-processuale si utilizzano delle procedure. Data la compresenza inevitabile di processo e procedure in ogni tipo di cura, la chiave della differenza si trova nel modo di integrare i due versanti dell’impresa. Il più semplice e più diffuso, ma anche il più rozzo, è quello di ibridare i due approcci: vale a dire, di agire a volte in modo dialogico-processuale, altre volte in modo tecnico-procedurale, alternando e mescolando i due approcci nei modi più vari. E’ il tipo eclettico di integrazione. Esistono però altri stili integrativi, più evoluti e raffinati, in quanto l’insieme che risulta dall’integrazione non assomiglia a un patchwork o uno zibaldone, ma ha una sua interna compattezza e coerenza. La differenza sostanziale tra i due tipi di cura si coglie allora in una prospettiva gestaltica di integrazione. Il quadro contiene sempre delle procedure e un processo, ma a seconda di ciò cui scegliamo di assegnare la funzione di figura, e rispettivamente di sfondo, l’immagine cambia radicalmente. In un caso, l’attenzione diretta in modo privilegiato al tutto comporta indirettamente un beneficio per la parte, nell’altro la cura della parte ha un effetto benefico sul tutto.
Ne risultano due modi radicalmente diversi di curare. Il primo è più propriamente un prendersi cura della persona e del suo disagio, indipendentemente dalla forma che questo disagio assume, e che può avere o non avere dei risvolti chiaramente patologici. Il secondo è una cura specificamente e tecnicamente rivolta al disturbo o al problema presentato. L’inversione gestaltica tra procedura e processo nei due approcci fa sì che le procedure impiegate dal terapeuta o counselor di orientamento processuale per favorire l’esplorazione e la comprensione dei vissuti, lo scioglimento dei blocchi, la produzione di esperienze riparative, l’attivazione delle risorse, abbiano in linea di principio un significato nettamente diverso da quello delle procedure impiegate nell’approccio procedurale. Mentre in questo la procedura deve essere applicata in modo sufficientemente protocollare perché la sua efficacia corrisponda a quella testata nell’esperimento (altrimenti sarebbe vanificata la pretesa di scientificità del metodo), nell’approccio processuale qualsiasi procedura prende significati diversi a seconda del contesto in cui è applicata. Persino una procedura medica, come la somministrazione di un farmaco antidepressivo (di cui come è ben noto l’effetto placebo non è inferiore all’effetto farmacologico) può avere un effetto rassicurante in certi casi, e all’opposto responsabilizzante in altri. L’effetto placebo è comprensibilmente ancora più alto nelle procedure relazionali, verbali e non verbali, nel senso che tutto ciò che il terapeuta fa o dice può essere ricevuto dal cliente con i significati più diversi. Compito primario del terapeuta e del counselor, in questa prospettiva, è precisamente quello di monitorare e decifrare il significato di tutto ciò che avviene nella relazione momento per momento (cosa che nel linguaggio psicoanalitico si chiama analisi del transfert e del controtransfert, ma che appartiene anche al repertorio del più umile counselor). E’ stato detto che la psicoterapia è il placebo: ma questo è vero appunto per la cura dialogico-processuale, mentre la terapia tecnico-procedurale funziona proprio come una cura medica: nel senso che si cerca di applicare una procedura proprio per il suo effetto specifico, neutralizzando per quanto è possibile l’effetto placebo di cui si riconosce la presenza, ma si minimizza l’importanza.
Bibliografia
Bion W. (1967). Notes on memory and desire. The Psychoanalytic Forum, Vol. 2, No. 3.
Blasi S., Rossi Monti M. (2013). La questione delle Psicoterapie e del counseling “sufficientemente buoni”. In Carere-Comes T. e Montanari C., Curare e prendersi cura nella psicoterapia e nel counseling. Sovera, Roma.
Carere-Comes T. (2009). Integrazione psicoterapeutica e paradigma intenzionale. In Carere-Comes T., Quale scienza per la psicoterapia?Florence Art Edizioni, Firenze.